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Scio rebat fari, faber nescio. Breve nota sull’utilità del latino

Non ci dovrebbe essere nemmeno bisogno di sottolinearlo. Con tutto il rispetto che si deve a un filosofo come Marco Santambrogio, il latino (o il greco) serve moltissimo. Trovo incredibile (e deludente) che persone di elevato spessore culturale non se ne avvedano. La cosa più importante che il latino permette ai ragazzi non è il fatto di conoscere la civiltà dell’antica Roma (anche quello, certo) o di essere una ‘scuola di logica’ (solo in parte, per la verità) o di inquadrare e contestualizzare la grammatica italiana (molto importante) ma è quella di rendere possibile un’esperienza diretta del procedere scientifico, di imparare una modalità di pensiero che si articola secondo lo schema popperiano problemi-teorie-critiche. La modalità del pensiero critico, cioè del pensiero scientifico! Tutto questo avviene nella pratica della traduzione.

Lo ha spiegato bene molto tempo fa Dario Antiseri. Nel tradurre si parte da una serie di indizi sul testo, magari sfruttando il titolo del brano e qualche fatto noto. Dopodiché si formulano delle ipotesi che poi vanno verificate gradualmente con il riscontro della grammatica. Se un’ipotesi non sta in piedi perché, ad esempio, viola una concordanza, allora va scartata e se ne formula un’altra. Stesso discorso per la scelta del significato di un termine. Il dizionario ne propone una serie, sicché lo studente è chiamato a valutare l’aderenza di ciascuno di essi con l’ipotesi interpretativa che in quel momento sta utilizzando. E così via. Questo modo di procedere (si potrebbe prendere come riferimento anche il famoso articolo di Davidson sulla confusione di epitaffi che fa leva sulla distinzione fra prior theory e passing theory per descrivere il meccanismo interpretativo) è esattamente il modo in cui lavora uno scienziato.

Obiezione: ma questo discorso può valere con qualsiasi lingua, con l’inglese ad esempio o il tedesco. Solo in parte. Per un motivo semplice: c’è una maggiore affinità fra le strutture morfosintattiche delle lingue moderne e una maggiore omogeneità a livello semantico per il cui processo di traduzione ne risulta facilitato. Non c’è lo ‘spaesamento’ (De Mauro) che danno il latino o il greco. Per fare solo un esempio: difficilmente si fa l’esperienza della difficoltà di ricerca di un termine di una lingua moderna nel dizionario che invece si sperimenta con la lingua greca: molti studenti di un tempo ricorderanno il celebre Pechenino, il libro che conteneva tutte le forme verbali più difficili che si incontrano nei testi greci, e che spesso gli studenti non riuscivano (non riuscivamo!) a trovare. Qualche difficoltà simile la può dare il tedesco, ma nulla di paragonabile al greco o al latino stesso: trovare il tema del presente di un aoristo difficile è come fare un identikit di un individuo a partire da una serie di indizi.

Ma c’è dell’altro. La pratica interpretativa che si fa con i testi latini e greci va a costituire un ‘bagaglio ermeneutico’ utile anche in altri campi, non strettamente linguistici. Può sembrare esagerato o paradossale, ma la ‘decifrazione’ di un passo di Cicerone o di Tucidide presenta analogie, diciamo metodologiche, con quanto avviene nello studio della fisica o della matematica. Capire come funziona una serie di Taylor e cosa permette di fare o come derivare le leggi del moto a partire dalle equazioni di Eulero-Lagrange presuppone la comprensione di un ‘linguaggio’ peculiare (l’analisi), che ha la sua propria struttura, cioè la sua morfologia e la sua sintassi.

Che queste non siano assurdità o al limite facezie lo dimostra un settore preciso della matematica, la teoria delle categorie (Mac Lane), che ha dato luogo, fra l’altro, a un campo di studi in cui interagiscono fisica, computazione e linguaggio, il QNLP (quantum natural language processing) laddove si fa vedere come gli elementi grammaticali, visti a un certo livello di astrattezza, siano entità soggette a una forma di entanglement. Lo studio del latino (si pensi ad esempio alla sintassi dei casi) aiuta a percepire questo livello di astrattezza computazionale e composizionale del linguaggio.

In tutto questo, c’è però un grosso problema di tipo pratico. Insegnare il latino in questo modo, cioè come modello di pensiero critico, da un lato, e dall’altro come struttura computazionale, richiederebbe delle competenze che gli insegnanti non hanno. Il normale laureato in lettere (certo non per colpa sua) sa poco o nulla di matematica, sconosce la logica e la filosofia del linguaggio. Il compito appare pertanto proibitivo.

C’è un’altra ricaduta, infine. Questo deficit di conoscenza genera una spiacevole conseguenza a livello di discorso pubblico: il classicista-tipo argomenta in modo poco convincente in favore del latino (penso ad esempio al saggio di Dionigi ma anche ai lavori ‘pop’ di Marcolongo). Ma anche i detrattori (filosofi, economisti) dal canto loro, argomentano male contro (l’utilità del)le lingue classiche (hanno in mente una concezione veteroumanistica: il rosa rosae, le declinazioni, il bla bla mnemonico). Ognuno dei protagonisti della storia si perde qualcosa di decisivo. Guardando agli uni e agli altri, perciò, si rimane un po’ delusi. Torna in mente un antico adagio (guarda caso, latino): scio rebar fari, fabar nescio.

Francesco Gusmano

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