NE’ BUONI NE CATTIVI
Secondo quella che potremmo definire una declinazione culturalista del dualismo cartesiano, da un lato vi è la nostra parte più nobile, meno animalesca, meno “bassa” (l’anima, la coscienza, l’io, la mente razionale), legata alla razionalità autoconsapevole e alla civiltà, dalla quale solo può nascere una socialità ottimale, cooperativa, “matura”; dall’altro lato vi è la nostra parte istintivo-impulsiva, meno razionalmente consapevole, più immediata, meno riflessiva, più animalesca, asociale e magari anche distruttiva.
In questa prospettiva, la socialità è una realtà “secondaria”: l’individuo invece un soggetto primario isolato, “dato” a priori come autonomo, il quale poi si muove verso gli altri, vive socialmente, crea strutture. Questa concezione dell’individuo, che ha trovato la sua consacrazione più radicale nell’antropologia pessimistica di Hobbes, è posta da Freud a fondamento della sua teoria sociale. A partire dal 1914, con Totem e Tabù, e poi in vari scritti negli anni Venti e Trenta, il pensatore viennese sviluppa la filosofia antropologica già implicita nella sua teoria: l’individuo, portatore di propensioni pulsionali-istintuali intrinsecamente asociali e in buona parte antisociali, tenderebbe a “scaricare” queste energie istintuali; tuttavia, prima il padre (o se si vuole il patriarca tribale) e poi il mondo sociale lo costringono a reprimere queste tendenze: ne nascono situazioni di compromesso fra la repressione sociale e la tendenza alla “scarica” istintuale, situazioni che sono conflittuali e fonte di disagio [1].
Nel modello Hobbes-Freud, dunque, l’egoismo è naturale, la cooperazione un artifizio. Ma prendendo le mosse dagli animali e dai bambini piuttosto che dall’autocoscienza adulta, prima i biologi evoluzionisti e poi gli psicologi dello sviluppo hanno delineato un’ipotesi alternativa: l’attività adattivo-cooperativa è primaria, dunque contestuale alla definizione stessa dell’organismo individuale. Dunque, gli animali non sono separabili dal loro ambiente né da forme di cooperazione con altri individui; e nella specie umana, non esiste un individuo asociale né presociale.
Il superamento della tradizionale concezione filosofica e psicologica dell’individuo umano come un soggetto primario isolato, “dato” a priori come autonomo, è il portato di una prospettiva contestualista e sistemica, la quale colloca le problematiche psicologiche (sia comportamentali sia soggettive) dell’individuo nel contesto interindividuale e sociale in cui nascono e ricevono senso. In tale prospettiva, biologia (individuale) e relazionalità (sociale) sono inscindibili: l’individuo è preorganizzato al rapporto interpersonale fin dalla nascita. La vecchia contrapposizione fra un individualismo “egoista” da un lato, e dall’altro la socialità “matura” e “civile” è dunque una contrapposizione sbagliata, una contrapposizione moralistica. Le forme dello stare insieme (competizione, partecipazione, cooperazione, anche abnegazione) non sono imposte soltanto da interesse o da paura, come vorrebbe l’autoritarismo politico, ma possono sorgere dalle articolazioni man mano più complesse di ciò che è il substrato biologico di ogni individuo.
Questa tesi del carattere primario della socialità è il cuore della concezione dell’individuo umano propria di una psicologia dinamica imperniata sulla doppia tematica delle relazioni oggettuali primarie e del legame di attaccamento. Ogni individuo viene qui visto come portatore di una serie molto complessa di motivazioni; e queste sono sempre e fin dall’inizio relazionali, ossia tengono conto della presenza degli altri, e si articolano in un gioco interpersonale di strategie comunicative.
Questo è ben chiaro nella tassonomia proposta dallo psicoanalista Joseph D. Lichtenberg: un tentativo sistematico di ridescrivere, all’intersezione fra la tradizione psicoanalitica e le indagini sistematiche sull’infanzia, lo sviluppo del bambino a partire da cinque “sistemi motivazionali” [2]. Questi sistemi sono identificati dall’autore, rispettivamente, in istanze: (i) di autoregolazione delle esigenze fisiologiche; (ii) di attaccamento-affiliazione; (iii) esploratorie-assertive; (iv) opposizionali-aggressive; (v) sensuali-sessuali. Si noti, tuttavia, che il sistema avversativo-aggressivo e il sistema sensuale-sessuale sono largamente dipendenti, il primo dal sistema esplorativo-assertivo, il secondo dal sistema attaccamento-affiliazione. Ciò ha indotto lo psichiatra Giovanni Jervis a suggerire che gli orientamenti motivazionali fondamentali potrebbero essere due soli. In primo luogo, il sistema motivazionale interpersonale, cooperativo, elementarmente socializzante dell’attaccamento-affiliazione; in secondo luogo il sistema affermativo-esplorativo. Il primo potrebbe essere chiamato “modalità prosociale di base”, o “sistema delle strutture elementari del fare-insieme”. Il secondo invece “sistema delle strutture elementari dell’autonomia individuale”, o “dell’auto-assertività”, o “della competizione possibile”. Fra questi due sistemi si originano spontanee situazioni di compromesso, che possono essere intelligenti, articolate e ingegnose, e non sono caratterizzate dal disagio ma dal fatto che creano ricchezza e cultura [3].
Da ciò emerge una filosofia antropologica che non è né pessimista né ottimista: gli individui sono naturalmente portati alla competizione (e talora alla distruttività) ma anche a forme di socialità, di cooperazione, e perfino di altruismo. Di più: la competitività e la cooperazione vanno di pari passo. Non c’è cooperazione senza competitività e non c’è competitività senza cooperazione. Questo è un fondamento naturale del comportamento umano come anche del comportamento animale.
Massimo Marraffa
[1] M. Marraffa, “Giovanni Jervis: la ricerca della concretezza”, in G. Jervis, Contro il sentito dire. Psicoanalisi, psichiatria e politica, Bollati Boringhieri, Torino 2014.
[2] J.D. Lichtenberg, Psychoanalysis and Motivation, The Analytic Press, Hillsdale (NJ) 1989.
[3] G. Jervis, Psicologia dinamica, il Mulino, Bologna 2001.
Credo che dalla filosofia del fare, anziché da quella comportamentale, si possa andare oltre al concludere che “gli individui sono naturalmente portati alla competizione (e talora alla distruttività) ma anche a forme di socialità, di cooperazione, e perfino di altruismo”.
Vilfredo Pareto approfondì le sue osservazioni attraverso la disamina del processo decisionale distinguendo le azioni tra quelle “logiche” e quelle “non logiche”. Una filosofia razionalistica accetta le prime e rifiuta le seconde; una filosofia umanistica le accetta entrambe.
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